Valutare la risposta alla terapia con interferone beta nei pazienti con Sclerosi Multipla? Oggi si può, partendo da un semplice prelievo di sangue, un test di biologia molecolare eseguito agli Spedali Civili di Brescia, il quale permette di ottenere informazioni sul rischio di peggioramento clinico dei pazienti con sclerosi multipla in trattamento con interferone beta.
La sclerosi multipla, malattia del Sistema Nervoso Centrale determinata da un’attivazione anomala del sistema immunitario, colpisce soprattutto giovani adulti, nei quali è la seconda più frequente causa di disabilità acquisita. Per questo motivo, ha un forte impatto sociale ed economico, mitigato in parte dalla terapia che modifica l’attività immunitaria, che pur essendo in grado di rallentarne la progressione, non è una cura definitiva. Tra questi farmaci, l’interferone beta determina una parziale riduzione dell’attività infiammatoria, diminuendo le lesioni del sistema nervoso centrale e rallentando lo sviluppo di disabilità irreversibile, con rari effetti collaterali severi. Nonostante siano passati quasi 20 anni dalla sua prima commercializzazione e nuovi più potenti farmaci siano stati sviluppati negli ultimi anni, l’interferone beta è ancora il trattamento di prima linea nella maggior parte delle persone con sclerosi multipla cosiddetta remittente-recidivante, la forma più comune della malattia.
Tra i limiti di questa terapia, due appaiono più rilevanti. Il primo è che fino al 40% dei pazienti può sviluppare, entro i primi 2-3 anni di trattamento, una risposta immunitaria contro il farmaco con la formazione di anticorpi che neutralizzano i benefici clinici. Da anni esiste un test che cerca di valutare la presenza degli anticorpi neutralizzanti nel sangue dei pazienti, ma tale test può essere eseguito solo in pochi laboratori ultra-specialistici, con risultato spesso di difficile interpretazione. Per questo motivo, nel Dipartimento di Diagnostica di Laboratorio degli Spedali Civili di Brescia è stato validato per l’uso in routine un test alternativo che valuta la presenza degli effetti biologici mediati del farmaco su cellule del sistema immunitario, che, se attivati, garantiscono che il farmaco stia agendo a livello. Questo test si basa sulla ricerca di RNA messaggero che codifica per “Mixovirus-resistance protein A” (MxA), una proteina che il sistema immunitario di tutti gli individui produce durante alcune infezioni virali perché dotata di un’azione antivirale), RNA che nei pazienti con sclerosi multipla viene indotto ad alti livelli circa 12 ore dopo ciascuna iniezione di interferone beta. MxA rappresenta quello che si chiama un “marcatore” di bioattività del farmaco, ovvero indica che il farmaco sta effettivamente determinando effetti biologici sul paziente che l’ha assunto.
Il secondo e più complesso aspetto di questa terapia è che – per motivi non ancora chiariti – non tutti i pazienti rispondono al trattamento, cioè gli effetti biologici innescati dall’interferone beta non sono ugualmente protettivi in tutti i pazienti. Poiché la sclerosi multipla remittente-recidivante ha un decorso imprevedibile e alterna lunghe fasi di stabilità è difficile capire se il farmaco stia realmente prevenendo l’attività infiammatoria. In questa contesto alcuni pazienti potrebbe proseguire una terapia con limitate possibilità di impatto favorevole sulla malattia. Per chiarire questi elementi, è stata sviluppata una ricerca che è stata recentemente pubblicata sulla rivista scientifica PLoS One e i cui risultati saranno materia di brevetto internazionale. Si tratta di uno studio progettato dal personale del Laboratorio CREA e del Centro Sclerosi Multipla degli Spedali Civili di Brescia ed esteso a nove Centri Sclerosi Multipla italiani.
In questa ricerca si è dimostrato che conoscere il livello medio di produzione di MxA di ogni paziente potrebbe fornire informazioni sul rischio di sviluppare un peggioramento clinico dopo due anni di terapia. In particolare, si è visto che tanto più rimane alto nel tempo il valore di MxA tanto più protettivo sarà il beneficio dell’interferone beta. Infatti i pazienti con un particolare valore di MxA superiore al valore soglia hanno un rischio inferiore di sviluppare nuove disabilità, anche in presenza di eventuali ricadute. Viceversa, i pazienti in cui MxA viene prodotto in quantità minore sono quelli che – per motivi ancora non noti – non rispondono in modo adeguato a questa terapia.
Fino ad oggi il dosaggio di MxA è stato eseguito prevalentemente nel sospetto di assenza di attività del farmaco causata da anticorpi neutralizzanti, ad esempio per un aumento inatteso della frequenza o gravità delle ricadute. I risultati dello studio pubblicato, invece, suggeriscono l’utilità dell’estensione del test a tutti i pazienti in trattamento, per individuare quelli a più alto rischio di peggioramento. Questi pazienti, in particolare, potrebbero essere i candidati ideali per la rivalutazione del programma terapeutico.
L’utilità di dosare MxA, quindi, diventa sempre più necessaria per la corretta gestione del paziente con sclerosi multipla in trattamento con interferone beta. A questo proposito è bene ricordare che il laboratorio degli Spedali Civili di Brescia è l’unico in Italia a effettuare il dosaggio, interamente a carico del Sistema Sanitario Nazionale ed ad oggi sono state eseguite più di 1100 dosaggi di MxA in pazienti provenienti da quasi tutte le regioni. Per eseguirlo è sufficiente un prelievo di sangue venoso e l’accortezza di osservare in intervallo di 12 ore dopo l’ultima iniezione del farmaco.
Il costo dell’esame per il Sistema Sanitario è così esiguo rispetto a quello della terapia con interferone beta che è stato stimato, tramite un semplice modello matematico, che già il rilievo di perdita di efficacia della terapia nel 10-15% dei pazienti, porterebbe a un risparmio per la sanità pubblica decisamente superiore ai costi sostenuti per eseguire l’esame.
Fonte: http://www.quibrescia.it/cms/2014/07/25/sclerosi-multipla-linterferone-beta-non-fa-piu-paura/
La sclerosi multipla, malattia del Sistema Nervoso Centrale determinata da un’attivazione anomala del sistema immunitario, colpisce soprattutto giovani adulti, nei quali è la seconda più frequente causa di disabilità acquisita. Per questo motivo, ha un forte impatto sociale ed economico, mitigato in parte dalla terapia che modifica l’attività immunitaria, che pur essendo in grado di rallentarne la progressione, non è una cura definitiva. Tra questi farmaci, l’interferone beta determina una parziale riduzione dell’attività infiammatoria, diminuendo le lesioni del sistema nervoso centrale e rallentando lo sviluppo di disabilità irreversibile, con rari effetti collaterali severi. Nonostante siano passati quasi 20 anni dalla sua prima commercializzazione e nuovi più potenti farmaci siano stati sviluppati negli ultimi anni, l’interferone beta è ancora il trattamento di prima linea nella maggior parte delle persone con sclerosi multipla cosiddetta remittente-recidivante, la forma più comune della malattia.
Tra i limiti di questa terapia, due appaiono più rilevanti. Il primo è che fino al 40% dei pazienti può sviluppare, entro i primi 2-3 anni di trattamento, una risposta immunitaria contro il farmaco con la formazione di anticorpi che neutralizzano i benefici clinici. Da anni esiste un test che cerca di valutare la presenza degli anticorpi neutralizzanti nel sangue dei pazienti, ma tale test può essere eseguito solo in pochi laboratori ultra-specialistici, con risultato spesso di difficile interpretazione. Per questo motivo, nel Dipartimento di Diagnostica di Laboratorio degli Spedali Civili di Brescia è stato validato per l’uso in routine un test alternativo che valuta la presenza degli effetti biologici mediati del farmaco su cellule del sistema immunitario, che, se attivati, garantiscono che il farmaco stia agendo a livello. Questo test si basa sulla ricerca di RNA messaggero che codifica per “Mixovirus-resistance protein A” (MxA), una proteina che il sistema immunitario di tutti gli individui produce durante alcune infezioni virali perché dotata di un’azione antivirale), RNA che nei pazienti con sclerosi multipla viene indotto ad alti livelli circa 12 ore dopo ciascuna iniezione di interferone beta. MxA rappresenta quello che si chiama un “marcatore” di bioattività del farmaco, ovvero indica che il farmaco sta effettivamente determinando effetti biologici sul paziente che l’ha assunto.
Il secondo e più complesso aspetto di questa terapia è che – per motivi non ancora chiariti – non tutti i pazienti rispondono al trattamento, cioè gli effetti biologici innescati dall’interferone beta non sono ugualmente protettivi in tutti i pazienti. Poiché la sclerosi multipla remittente-recidivante ha un decorso imprevedibile e alterna lunghe fasi di stabilità è difficile capire se il farmaco stia realmente prevenendo l’attività infiammatoria. In questa contesto alcuni pazienti potrebbe proseguire una terapia con limitate possibilità di impatto favorevole sulla malattia. Per chiarire questi elementi, è stata sviluppata una ricerca che è stata recentemente pubblicata sulla rivista scientifica PLoS One e i cui risultati saranno materia di brevetto internazionale. Si tratta di uno studio progettato dal personale del Laboratorio CREA e del Centro Sclerosi Multipla degli Spedali Civili di Brescia ed esteso a nove Centri Sclerosi Multipla italiani.
In questa ricerca si è dimostrato che conoscere il livello medio di produzione di MxA di ogni paziente potrebbe fornire informazioni sul rischio di sviluppare un peggioramento clinico dopo due anni di terapia. In particolare, si è visto che tanto più rimane alto nel tempo il valore di MxA tanto più protettivo sarà il beneficio dell’interferone beta. Infatti i pazienti con un particolare valore di MxA superiore al valore soglia hanno un rischio inferiore di sviluppare nuove disabilità, anche in presenza di eventuali ricadute. Viceversa, i pazienti in cui MxA viene prodotto in quantità minore sono quelli che – per motivi ancora non noti – non rispondono in modo adeguato a questa terapia.
Fino ad oggi il dosaggio di MxA è stato eseguito prevalentemente nel sospetto di assenza di attività del farmaco causata da anticorpi neutralizzanti, ad esempio per un aumento inatteso della frequenza o gravità delle ricadute. I risultati dello studio pubblicato, invece, suggeriscono l’utilità dell’estensione del test a tutti i pazienti in trattamento, per individuare quelli a più alto rischio di peggioramento. Questi pazienti, in particolare, potrebbero essere i candidati ideali per la rivalutazione del programma terapeutico.
L’utilità di dosare MxA, quindi, diventa sempre più necessaria per la corretta gestione del paziente con sclerosi multipla in trattamento con interferone beta. A questo proposito è bene ricordare che il laboratorio degli Spedali Civili di Brescia è l’unico in Italia a effettuare il dosaggio, interamente a carico del Sistema Sanitario Nazionale ed ad oggi sono state eseguite più di 1100 dosaggi di MxA in pazienti provenienti da quasi tutte le regioni. Per eseguirlo è sufficiente un prelievo di sangue venoso e l’accortezza di osservare in intervallo di 12 ore dopo l’ultima iniezione del farmaco.
Il costo dell’esame per il Sistema Sanitario è così esiguo rispetto a quello della terapia con interferone beta che è stato stimato, tramite un semplice modello matematico, che già il rilievo di perdita di efficacia della terapia nel 10-15% dei pazienti, porterebbe a un risparmio per la sanità pubblica decisamente superiore ai costi sostenuti per eseguire l’esame.
Fonte: http://www.quibrescia.it/cms/2014/07/25/sclerosi-multipla-linterferone-beta-non-fa-piu-paura/
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