Articolo del 8 marzo 2013 preso da vocidibrescia.corriere.it
di Marco Toresini
Certe cose, probabilmente, succedono solo in Italia. Solo in Italia può accadere che una terapia su una malattia grave, anzi spesso incurabile, debba essere essere prescritta non da un medico, ma da un giudice. Solo in Italia può accadere che ciò che un giudice decide in Sicilia non sia uguale a ciò che ordina un suo collega che sta a Firenze e, cosa ancor più grave, ciò che un magistrato del lavoro ritiene diritto insopprimibile alla salute, diventa per un altro magistrato, questa volta inquirente, corpo del reato, oggetto di un’indagine in cui si sospetta la somministrazione di terapie dannose.
Solo in Italia può capitare che l’autorità sanitaria vieti ad un ospedale di eseguire una determinata cura, ma un giudice imponga ai medici di quell’ospedale di violare il divieto, nonostante, peraltro, proprio per quel comportamento ora imposto per legge medici e funzionari siano stati messi sotto indagine dal pubblico ministero della porta accanto. Verrebbe da sorridere se non si parlasse di storie di uomini, donne, bambini e famiglie disperate; di speranze inseguite invano, di piccoli miglioramenti letti come la lenta risalita da un baratro.
Stiamo raccontando una guerra che si sta combattendo tra scienza, diritto e politica. Una battaglia che finisce per calpestare la speranza delle persone e dei malati, mettendo in mezzo un ospedale, come il Civile di Brescia che da sempre rappresenta un’eccellenza della sanità Lombarda. Stiamo parlando della “guerra delle Staminali” in corso da un anno e sulla quale si è espresso recentemente, in un appello dalle colonne del Corriere, anche Adriano Celentano. Un appello affinchè una bambina fiorentina, Sofia, gravemente ammalata possa essere ammessa ad una terapia che prevede l’infusione di cellule staminali secondo la metodologia messa appunto dalla Fondazione Stamina, organizzazione finita sotto inchiesta dalla Procura di Torino, che all’Ospedale Civile di Brescia praticava, secondo le regole previste dalle cosiddette cure compassionevoli, infusioni a dodici pazienti affetti da malattie degenerative del sistema nervoso. Quelle pratiche sono state bloccate dai carabinieri, dal ministero e dall’Agenzia del farmaco (l’Aifa) nel maggio 2012 e da quel giorno le persone che hanno chiesto ai giudici del lavoro di potersi curare con il metodo Stamina sono una trentina. Nei loro confronti i giudici hanno decisio in modo difforme: qualcuno ha imposto al Civile (nel frattempo colpito da una diffida dell’Aifa a praticare la terapia e finito sotto indagine ad opera della Procura di Torino) di curare il paziente con il metodo Stamina, altri hanno detto sì alle staminali della Stamina ma lavorate in una cell factory (laboratori specializzati in questi trattamenti) e non al laboratorio del Civile, altri giudici ancora hanno detto sì alle staminali, ma no al metodo Stamina, troppo discusso per essere considerato sicuro.
In questa grande confusione le famiglie sono come fuscelli nella tempesta, mentre ad ogni trasmissione televisiva, ad ogni appello firmato da un vip, crescono le istante davanti ai giudici per avere quella che per molti è diventata l’unica cura salvavita. Insomma, la guerra delle staminali assomiglia molto a quella che anni fa passò alla storia come la Cura Di Bella, un mix di medicine che – si riteneva – avesse effetti prodigiosi e meno invasivi sulla cura dei tumori. La battaglia, allora come oggi, si combattè anche a colpi di sentenze, ma si finì per ricondurre la terapia nell’alveo di una sperimentazione che ne evidenziò, limiti e inefficienze, tanto che oggi della Cura Di Bella non parla più nessuno.
E’ arrivato il tempo che anche sul caso Stamina si giunga a far chiarezza e si riporti quella metodologia nell’alveo che le è più congeniale: quello di una terapia che, se efficace, deve essere prescritta da un medico e non da un giudice. Per fare questo però serve una generale assunzione di responsabilità. Da parte della Stamina Foundation dello psicologo Davide Vannoni, che, se ritiene valida la sua terapia, deve permettere a terzi di verificarne l’efficacia attraverso una sperimentazione scientificamente riconosciuta. Da parte delle autorità sanitare, dal ministero all’Aifa (passando per la Regione Lombardia che promosse e autorizzò la cura con il metodo Stamina al Civile di Brescia), che devono offrire ai pazienti la garanzia di una terapia sicura e non limitarsi a proibire il metodo Stamina facendo finta di non sapere che, ciò che è stato chiuso fuori dalla porta della medicina tradizionale, è in realtà rientrato dalla finestra aperta da un giudice che davanti ad un bambino in stato vegetativo o davanti alla disperazione di una famiglia non può far altro che affidarsi al principio che se una cura non può peggiorare una situazione già disperata, si può sempre sperare che abbia qualche beneficio (cosa che, è giusto sottolinearlo, in qualche caso è avvenuta). Da parte della politica che deve affrontare e legiferare con coraggio su un tema importante e carico di prospettive scientifiche come quello della manipolazione delle cellule staminali senza nascondersi dietro questioni etiche (in questo modo permettendo a chiunque di ergersi a vero e autorevole custode dei segreti di un campo in cui c’è ancora molto da lavoroare).
In un Paese normale il fenomeno Stamina sarebbe già stato ricondotto a terapia sperimentale privando contemporaneamente il suo inventore di quell’aurea di “guaritore” e di uomo della provvidenza cucitagli addosso dall’incapacità di governare un fenomeno che rischia di alimentare inutili speranze. “La ricerca sulle staminali non si improvvisa” spiegano ricercatori illustri e proprio perchè l’argomento è serio va sgomberato il campo da chi potrebbe promettere miracoli senza futuro. Il paziente ha bisogno di sapere a chi chiedere di alimentare la propria speranza, chi ne ha gli strumenti deve spiegare limiti e pregi di una terapia e di chi la somministra, smascherando scientificamente le false conquiste e le millanterie. Perchè in un paese normale scienza e autorità sanitarie rispondono innanzitutto al paziente senza dare l’impressione che quelle risposte siano di maniera. Perchè, magari, al centro della battaglia, non c’è il malato ma la difesa di qualche rendita di posizione nella comunità scientifica.
di Marco Toresini
Certe cose, probabilmente, succedono solo in Italia. Solo in Italia può accadere che una terapia su una malattia grave, anzi spesso incurabile, debba essere essere prescritta non da un medico, ma da un giudice. Solo in Italia può accadere che ciò che un giudice decide in Sicilia non sia uguale a ciò che ordina un suo collega che sta a Firenze e, cosa ancor più grave, ciò che un magistrato del lavoro ritiene diritto insopprimibile alla salute, diventa per un altro magistrato, questa volta inquirente, corpo del reato, oggetto di un’indagine in cui si sospetta la somministrazione di terapie dannose.
Solo in Italia può capitare che l’autorità sanitaria vieti ad un ospedale di eseguire una determinata cura, ma un giudice imponga ai medici di quell’ospedale di violare il divieto, nonostante, peraltro, proprio per quel comportamento ora imposto per legge medici e funzionari siano stati messi sotto indagine dal pubblico ministero della porta accanto. Verrebbe da sorridere se non si parlasse di storie di uomini, donne, bambini e famiglie disperate; di speranze inseguite invano, di piccoli miglioramenti letti come la lenta risalita da un baratro.
Stiamo raccontando una guerra che si sta combattendo tra scienza, diritto e politica. Una battaglia che finisce per calpestare la speranza delle persone e dei malati, mettendo in mezzo un ospedale, come il Civile di Brescia che da sempre rappresenta un’eccellenza della sanità Lombarda. Stiamo parlando della “guerra delle Staminali” in corso da un anno e sulla quale si è espresso recentemente, in un appello dalle colonne del Corriere, anche Adriano Celentano. Un appello affinchè una bambina fiorentina, Sofia, gravemente ammalata possa essere ammessa ad una terapia che prevede l’infusione di cellule staminali secondo la metodologia messa appunto dalla Fondazione Stamina, organizzazione finita sotto inchiesta dalla Procura di Torino, che all’Ospedale Civile di Brescia praticava, secondo le regole previste dalle cosiddette cure compassionevoli, infusioni a dodici pazienti affetti da malattie degenerative del sistema nervoso. Quelle pratiche sono state bloccate dai carabinieri, dal ministero e dall’Agenzia del farmaco (l’Aifa) nel maggio 2012 e da quel giorno le persone che hanno chiesto ai giudici del lavoro di potersi curare con il metodo Stamina sono una trentina. Nei loro confronti i giudici hanno decisio in modo difforme: qualcuno ha imposto al Civile (nel frattempo colpito da una diffida dell’Aifa a praticare la terapia e finito sotto indagine ad opera della Procura di Torino) di curare il paziente con il metodo Stamina, altri hanno detto sì alle staminali della Stamina ma lavorate in una cell factory (laboratori specializzati in questi trattamenti) e non al laboratorio del Civile, altri giudici ancora hanno detto sì alle staminali, ma no al metodo Stamina, troppo discusso per essere considerato sicuro.
In questa grande confusione le famiglie sono come fuscelli nella tempesta, mentre ad ogni trasmissione televisiva, ad ogni appello firmato da un vip, crescono le istante davanti ai giudici per avere quella che per molti è diventata l’unica cura salvavita. Insomma, la guerra delle staminali assomiglia molto a quella che anni fa passò alla storia come la Cura Di Bella, un mix di medicine che – si riteneva – avesse effetti prodigiosi e meno invasivi sulla cura dei tumori. La battaglia, allora come oggi, si combattè anche a colpi di sentenze, ma si finì per ricondurre la terapia nell’alveo di una sperimentazione che ne evidenziò, limiti e inefficienze, tanto che oggi della Cura Di Bella non parla più nessuno.
E’ arrivato il tempo che anche sul caso Stamina si giunga a far chiarezza e si riporti quella metodologia nell’alveo che le è più congeniale: quello di una terapia che, se efficace, deve essere prescritta da un medico e non da un giudice. Per fare questo però serve una generale assunzione di responsabilità. Da parte della Stamina Foundation dello psicologo Davide Vannoni, che, se ritiene valida la sua terapia, deve permettere a terzi di verificarne l’efficacia attraverso una sperimentazione scientificamente riconosciuta. Da parte delle autorità sanitare, dal ministero all’Aifa (passando per la Regione Lombardia che promosse e autorizzò la cura con il metodo Stamina al Civile di Brescia), che devono offrire ai pazienti la garanzia di una terapia sicura e non limitarsi a proibire il metodo Stamina facendo finta di non sapere che, ciò che è stato chiuso fuori dalla porta della medicina tradizionale, è in realtà rientrato dalla finestra aperta da un giudice che davanti ad un bambino in stato vegetativo o davanti alla disperazione di una famiglia non può far altro che affidarsi al principio che se una cura non può peggiorare una situazione già disperata, si può sempre sperare che abbia qualche beneficio (cosa che, è giusto sottolinearlo, in qualche caso è avvenuta). Da parte della politica che deve affrontare e legiferare con coraggio su un tema importante e carico di prospettive scientifiche come quello della manipolazione delle cellule staminali senza nascondersi dietro questioni etiche (in questo modo permettendo a chiunque di ergersi a vero e autorevole custode dei segreti di un campo in cui c’è ancora molto da lavoroare).
In un Paese normale il fenomeno Stamina sarebbe già stato ricondotto a terapia sperimentale privando contemporaneamente il suo inventore di quell’aurea di “guaritore” e di uomo della provvidenza cucitagli addosso dall’incapacità di governare un fenomeno che rischia di alimentare inutili speranze. “La ricerca sulle staminali non si improvvisa” spiegano ricercatori illustri e proprio perchè l’argomento è serio va sgomberato il campo da chi potrebbe promettere miracoli senza futuro. Il paziente ha bisogno di sapere a chi chiedere di alimentare la propria speranza, chi ne ha gli strumenti deve spiegare limiti e pregi di una terapia e di chi la somministra, smascherando scientificamente le false conquiste e le millanterie. Perchè in un paese normale scienza e autorità sanitarie rispondono innanzitutto al paziente senza dare l’impressione che quelle risposte siano di maniera. Perchè, magari, al centro della battaglia, non c’è il malato ma la difesa di qualche rendita di posizione nella comunità scientifica.
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